Mi sveglio in stato confusionale in un letto che non conosco.
Non so chi sia la persona che mi dorme vicino e non ricordo nulla di cosa sia successo nelle ultime ore. Mi infilo di soppiatto i vestiti per uscire da lì il prima possibile, quando squilla il cellulare. Pare non abbia sentito quindi azzero la suoneria e mi avvio in punta di piedi verso la porta della cucina. O quella che spero sia la cucina. O un cesso. O un posto dove non ci siano peli di cane e senso di colpa. Trovo una specie di soggiorno. Ovunque odore di torneo alla playstation. Quel fetore che solo chi ha convissuto con chi ha sudato, fumato, rovesciato birre e assunto droghe giocando a pes per giornate intere può riconoscere. Cerco al buio i miei vestiti, e trovo solo la camicia e una scarpa. Non riesco a focalizzare bene. Chi? Dove? Come? PERCHE’?
Non deve essere andato tutto liscio perchè nel corpo ho una mappa di lividi così dettagliata da poter metter tre carri armati sul Siam. Mi siedo su quello che una volta era probabilmente un divano e cerco di ricostruire. L’alba sembra ancora lontana (le quattro? le cinque? meglio non saperlo). Una sigaretta lasciata da qualcuno nel posacenere. Mi schifa il solo pensiero ma magari accenderla mi aiuterà a calmarmi e a riflettere. Rubo un fiammifero da una scatola dimenticata sul tavolo e nel bagliore vedo i miei jeans sotto il tavolo. Manca la cintura. Ma il portafogli c’è. Controllo al tatto quante banconote ci sono e capisco che per qualche giorno dovrò saltare la colazione al bar.
Mi affaccio. Getto il mozzicone in strada e cerco di capire in che parte della città sia. Quartiere anonimo, medio borghese, poche macchine in transito e primi uccellini che danno il buongiorno a chi di avere il buongiorno ne farebbe volentieri a meno. Davanti al portone vedo il mio scooter. Pare essere ok. Forse non ho guidato io. Con i piedi scalzi tocco qualcosa. E’ ricamato, ha una forma irregolare.
Deve essere il mio reggiseno.
Lo è.
Lo indosso, mi infilo i jeans senza mutande e decido di svegliare quel cazzone che russa placido nel letto per chiedere dove cazzo siamo e come cazzo siamo finiti lì.
Mi avvicino alla stanza da letto, quando la mia attenzione viene catturata da una luce debole che penetra dalla fessura di una porta rossa. E’ tappezzata con foto di giovani star, ma non riesco a distinguerne i volti. Mi avvicino. Apro piano cercando di fare meno rumore possibile. Illuminata da una lampada notturna, di fronte a me compare la stanza di una bambina. Una bambina che dorme silenziosa sotto un piumone con dei personaggi disney stampati sopra. “Quel figlio di puttana ha una figlia. Quel figlio di puttana si porta la gente a casa mentre sua figlia dorme nella stanza di fianco”. Rimango sconvolta pensando alle condizioni della casa in cui quella ragazzina è costretta a vivere. Non riesco a smettere di guardarla, e per un attimo ho la tentazione di svegliarla e portarla via. Di bere con lei un succo di arancia in una terrazza sul mare e di passeggiare in un parco insegnandole i nomi degli alberi. Il rumore di una motocicletta deflagra improvvisamente dalla strada. La bambina ha un sussulto e si rigira ancora con gli occhi chiusi nel letto. In un istante troppo lungo per non esserne angosciata e troppo breve per evitarlo apre gli occhi. Mi osserva per qualche secondo cercando di mettermi a fuoco.
Ha una mia foto sul comodino.
Ci ritrae in costume sulla costiera amalfitana.
L’anno scorso. Forse due anni fa. Ora ricordo.
“..Mamma?!”
“Sì amore sono io. Ma ora rimettiti a dormire. Domani ci aspetta una lunga giornata”
(this) vuole esprimere a suo modo la propria solidarietà verso chi è affetto da malattie oggi incurabili come l’Alzheimer. A seguito delle recenti notizie di cronaca nera e delle ultime insensate sparate fantascientifiche, vogliamo anche (per quanto possa contare) dimostrare la nostra stima verso chi si prende cura dei propri cari affetti da questo morbo.