L’ultima volta che ho preso il peyote mi sono perso senza acqua nel deserto di Real de Catorce, nello stato messicano di San Luis Potosì. Una bella scocciatura in effetti, considerato che eravamo anche senza telefoni e le lancette segnavano mezzogiorno.
In quella situazione di merda ci eravamo finiti perchè come al solito i nostri entusiasmi estemporanei erano frenati solo dalla nostra cupidigia di rare sostanze psicodislettiche. Una frase ad effetto di cui vado piuttosto fiero ma che oltre a non avere senso si può tradurre con un semplice “non ce ne fregava un cazzo del buon senso e ci buttavamo a pesce nelle cose col cervello perennemente in modalità stand by”. Non mi giudicate: ho avuto una infanzia piuttosto felice, non ho subito molestie degne di nota e negli anni passati ho anche fatto lavori socialmente rilevanti. Il profilo crepetiano di malvagio criminale non mi veste bene, anche se amerei un giorno vedere il plastico di casa mia in una qualche trasmissione d’inchiesta in seconda serata. Semplicemente, chiunque abbia avuto vent’anni sa che prendere parte a qualcosa di più grande (e perchè no, proibito) attizza gli animi come poche altre cose, specie se fornisce spunti per racconti isterici da infilare in blog qualunquisti.
A tal proposito, stavo dicendo di noi persi nel deserto. Eravamo finiti lì per dare retta ad un brasiliano conosciuto in una posada a sud di un villaggio di pescatori sul Pacifico, uno psicopatico senza alcuna remora morale il cui fabbisogno quotidiano di oppiacei e vino scadente avrebbe fatto sentire un pivello anche il miglior Gennarino Penna d’Oro (personaggio blasfemo noto ai bolognesi, per chi legge da fuori città si utilizzi come riferimento culturale Michele Cucuzza).
“Pare che in quel deserto si trovino i peyote che utilizzavano i popoli precolombiani per [inserire un’azione inverosimile a scelta]”, ci disse una sera. Era fatta. Partimmo da Real de Catorce, città fantasma in cima ad una montagna rocciosa, a bordo di una jeep sapientemente privata di ammortizzatori, freni, finestrini e cinture di sicurezza, e dopo qualche ora di viaggio eravamo in mezzo al deserto. Il conducente ci chiese il doppio dei pesos per riportarci in città, e solo quando lo avevamo già mandato affanculo ci rendemmo conto che ovunque guardassimo non c’era ombra di civiltà, tantomeno di un mezzo che ci riportasse in cima alla montagna. Grazie al cielo la raccolta di peyote fu abbondante e reiterata, un’oasi che ancora oggi non ricordiamo se fosse vera o frutto di allucinazioni ci rinfrescò e rigenerò, e prima che i coyote potessero banchettare con i nostri corpi intossicati eravamo tornati in paese. Pare infatti che tra le mille azioni inverosimili che i peyote ti permettono di fare, ci fosse quella di camminare sotto il sole rovente per giorni e giorni nella totale gioia interiore.
Questa storia mi è tornata in mente ieri quando ho letto della messa all’indice di Quit The Doner come “personaggio non gradito al M5S” da parte di Beppe Grillo. Per chi non conoscesse Quit, questo è lui e questa è la storia cui faccio riferimento, raccontata da Linkiesta.
Il popolo dei grillini si è unito al loro leader carismatico in una fucilazione mediatica tipica degli attivisti da tastiera. Senza probabilmente leggere l’articolo incriminato e senza attivarsi per prendere una posizione scevra dalle politiche imposte dal big boss, uno tsunami di punti esclamativi, 1 e caps lock si è riversato nelle maglie della rete per colpire il giornalista.
Ecco, i grillini in questa occasione mi sono sembrati il nostro gruppi di giovani bohémienne in gita ricreativa. Senza pensarci troppo hanno fatto quadrato e sostenuto una battaglia che non gli appartiene, solo per sentire quel testosteronico senso di fratellanza che rende coeso anche il gruppo più eterogeneo. Si affrontano battaglie a colpi di tastiera wireless per provare una volta tanto l’emozione di stare con chi vince (sic), senza considerare tutte le ragioni della bandiera sotto la quale si sta digitando. Pedine di una battaglia pensata da altri ma combattuta da ottenebrati peoni dall’insulto facile e gratuito.
Poi è chiaro, noi ci siamo divertiti ad attraversare un deserto e a scalare una montagna completamente nudi e strafatti per seguire i racconti magici di un tossico di Rio de Janeiro, ma la cosa ha avuto conseguenze. Gravi. Ancora oggi, per esempio, tutte le volte che dico una parola svuotata contenente tre erre l’occhio sinistro mi si chiude di scatto.
Ramarro.
Arrotare.
Rappresentare.
blink
L’ha ribloggato su Welcome to the junglee ha commentato:
🙂 un sorriso di prima mattina!