Quelli che cioè a noi ci sembrano gli album italiani troppobbelli del 2011

spaccare tutto senza un valido motivoBrutta storia la disoccupazione. Ti fa guardare merda in tv, ti mette ai fornelli a cucinare storie tipo suorgermana imparate su youtube e ti permette di ascoltare più roba di quel che dovresti. Mandare curriculum ovviamente è fuori discussione. C’è la crisi. Figurati se vengono a cagare proprio me. Tanto vale finire le stagioni di Bored to Death e Breaking Bad. Magari rivedermi un paio di episodi di Death Note. Certo è vero che nei ritagli di tempo tra un non-colloquio e l’altro bisogna pure andare a comprare viveri e bevande, e si sa gli spostamenti urbani richiedono dosi massicce di musica iniettata direttamente nel cervello via auricolari (o mega cuffie per i più fescion). E’ altrettanto vero però che sempre meno novità di valore vengono proposte. Sarà la crisi, sarà sto buco dell’azoto, il fatto che oggi scopano più i diggei che i chitarristi o il crescente numero di gomiti che fan contatto col piede, ma nel mainstream ben pochi soldatini del ’99 si sono dati in pasto all’asburgico mercato musicale. Tanto che ad aprile si parlava dei migliori dischi del primo quadrimestre del 2011 ed erano tutti mostrisacri tornati alla ribalta. Gruppi riformati e poche band di giovanotti. Anche perchè l’unica che c’è è già costata la vita ad un operaio sottopagato, quindi potremmo anche devolvere i minuti sprecati nell’ascoltare costui al curling su ghiaia o meglio al puntocroce in apnea.

Dato comunque che le pause di riflessione tra una pennica e una partita all’xbox mi consentono di gestire al meglio il mio tempo, ho produttivamente deciso di  chiedere a due redattori di (this) cosa questo 2011 abbia regalato a noi avidi divoratori di novità musicali. Roba italiana, preferibilmente. Roba che puoi anche ascoltare live senza pagare 70 euro di biglietto, e magari in un raggio inferiore ai 70 km da casa tua (contestualizzando ovviamente come casa tua il luogo dove svieni la sera e bevi il caffè la mattina). Queste le trascrizioni delle interviste effettuate a pabblobabol e danji tra una sfida a biliardino col padrone del de marchi e un bicchiere della staffa con contratto indeterminato.

Brutta storia la disoccupazione.

pabblobabol:

La differenza tra me e te è che tu ascolti punk perché sei sempre incazzato e non hai niente da dire, io invece ascolto hip hop perché rifletto sugli eventi. Così mi ha detto qualche anno fa un amico che non ha mai capito un cazzo né di musica né di nient’altro.
Quest’anno è iniziato a suon di punk con Proteggere e Servire degli Smart Cops, forse il più longevo dei dischi nell’archivio del mio lettore mp3. Gente che è incazzata, molto, e di roba da dire ne ha sicuramente di più di quei cazzoni dei club dogo che voglio ricordare a chi tanto li osanna hanno fatto un featuring con biagio antonacci.
kaos one post scriptaE invece quest’anno è finito ancora più incazzato perché a 27 anni ho scoperto il rap e ancora non me ne capacito. Per quanto abbia sempre considerato merda il novanta percento delle produzioni da qualche mese sono in loop con Kaos come un neonato con la giostra dei cavalli sulla culla. Come il buon Giangi di -bastonate- ha sottolineato il mese scorso “Per Dargen D’Amico il rap è fare finta che domani muori; per Kaos invece è morire ADESSO, in ogni istante, e per davvero. Capisci? È sempre stata questa la differenza. Non avere alternative, giocarsela fino in fondo, fino alla fine, senza un altro posto dove andare, senza un piano B.” e non posso che sottoscrivere ogni virgola.
Infatti anche se non ho mai capito niente di rap e credo ben poco ne capirò Kaos ha tutto il mio rispetto. Il che vuol dire che potrei addirittura finire ad un suo concerto, e vi assicuro che la cosa mi preoccupa seriamente. Tutto questo per dire che Post Scripta, album uscito giusto un mese e mezzo fa, merita di stare in altissimo nella classifica della merda – buona – che ho ascoltato quest’anno.

forty winks bow howSperavo uscisse qualcosa di nuovo degli X-Mary e invece a quanto pare bisognerà aspettare i prossimi mesi. Pazienza. A tirar fuori qualcos’altro così su due piedi mi vengono in mente i Verme – il 7” Bad Verme – e pure Bow Wow dei Forty Winks, che manco sapevo avessero fatto un altro album, ma al primo ascolto m’è sembrato very nice, poi magari se ne riparlerà in futuro.
Continuo invece a chiedermi come cazzo faccia Bugo a continuare nella sua inarrestabile decadenza, forse dovrebbe farsi ricrescere i capelli.

Nella categoria non c’entra niente ma lo voglio dire lo stesso il back to the roots (non so se si dice così?) dell’anno. Discografia dei Social Distortion. Mi sono tornati i brufoli sulla fronte.

danji:

Se posso permettermi di eliminare dalle tue aspettative Verdena, Brunori SAS e i Classic Education per legittimo impedimento nel prenderli sul serio, ti dirò che quest’anno è andato piuttosto bene, soprattutto per chi ama il punk-core e il folk-rock fatto senza tante menate di testi sacri e virtuosismi onanistici. La più gradita sorpresa è senza dubbio quella dei Gazebo Penguins, trio emiliano dedito alla fucilazione dei timpani con uno spaghetti hard core di primo livello, che col suo Legna (nomen omen) ha stupito un pò tutti. Disco in free download (qui) e tanta ironia distorta per chi ha le orecchie a prova di riff full metal jacket.

raein sulla linea d'orizzonteAltro prodotto da prendere sul serio è Sulla Linea D’orizzonte Tra Questa Mia Vita e Quella di Tutti dei Raein, gruppo screamo di pazzoidi forlivesi che se chiedi di loro nel resto del mondo ti mostrano i tattoo col loro logo anche nel buco del culo, ma che qui in Italia a mio giudizio non hanno ancora ricevuto il tributo che meriterebbero. Sicuramente comunque più bravi a suonare che a giocare a calcetto (la dovevo mettere, concedetemelo).

Sugli Zen Circus ci siamo dilungati già abbastanza, rimane comunque  il fatto che Nati per Subire è una delle perle dell’anno. Buoni anche i lavori di The Death of Anna Karina (Lacrima / Pantera) e di 33ore, menestrello postmoderno che da oltre un anno rappresenta la punta di diamante della ottima Garrincha Records.

Sono un pò scettico sul ritorno dei One Dimensional Man, non tanto per il loro disco A Better Man, quanto più per questa roba che i gruppi si devono riformare (non erano formalmente sciolti ma nemmeno costanzo è formalmente sposato con un uomo). Cristo se qualcosa dovrà andare storto lo farà, recitava la legge di murphy, ed evidentemente qualcosa era successo. Questa voglia di tornare insieme per tutti sti gruppi mi fa davvero incazzare, e non parlo solo nel panorama italiano (fanno eccezione solo gli Stone Roses: bravi ragazzi, dateci dentro). Tanto più che spesso ripropongono i vecchi successi per un tour (vedi Rage Against The Machine) e poi ritornano a sfancularsi liberamente una volta incassato il bonifico.

Anyway

Sui JoyCut non sono obiettivo da quando ci fotterono metà concerto perchè dovevano fare il loro soundcheck meglio di noialtri e fecero slittare tutto il live di più di un’ora (ad ogni modo fanno cagare). Bella lì per i Love Boat che hanno fatto uscire un EP e per I Cani, che hanno ritruffato la storia della  musica con il loro paraculo ma funzionale Il sorprendente album bla bla.

E’ chiaro che una marea di gruppi e cantanti son rimasti fuori dall’elenco, vedi Giorgio Canali ed Ex-Otago, ma non sono disoccupato da abbastanza tempo per essere informato proprio su tutto.

Se però mi offri il prolungamento di contratto per il bicchiere della staffa sono disposto a scaricarlo e riassumertelo in poche parole. O a giudicarlo dalla copertina. Fai te

Io non sono figlio unico, e critico i film (e dischi) anche senza prima vederli

(this) combatte strenuamente l’alcoolismo giovanile

…e per questo vi offre un pezzo di moralità tutta italiana, significativo soprattutto per regia e sceneggiatura. La leggenda del Santo Bevitore è roba per dilettanti, i racconti di Bukowski favole per bambini impressionabili, Leaving Las Vegas un film per anziani che si pisciano addosso. Vincenzo Guercia ci ha finalmente spiegato con parole semplici a cosa si può andare incontro se proseguiamo in quella che Blake chiamava affettuosamente la strada dell’eccesso. Riportateci le vostre storie di alcoolismo di strada, saremo lieti di valutarle, commentarle, al massimo ignorarle.

Ustica: 31 anni dopo il puzzle è ancora incompleto

Tra le tante inutili flatulenze di cronaca che oggi hanno riempito i quotidiani, ben poco spazio ha trovato il 31 anniversario della strage di Ustica, avvenuta il 27 giugno del 1980, qualche settimana prima della strage alla stazione di Bologna. Per onorare la memoria di un’evento che ancora non è stato spiegato come dovuto, lo staff di (this) vi invita ad andare a visitare (è aperto il week end) il museo della memoria. Non sarà cool come il Mambo, non sarà fashion come quello della musica, ma di certo farà riflettere più di un ex-panificio dove ora il pane te lo danno solo con cocktail a 7 euro l’uno. Qui di seguito, il report pubblicato in occasione dell’apertura del Museo per la Memoria della strage di Ustica ad opera di uno dei nostri collaboratori, al tempo corrispondente per l’Unione Sarda.

Ustica, il puzzle di una tragedia

A Bologna il museo dedicato
alle 89 vittime del DC-9 abbattuto

L’Unione Sarda – Mercoledì 29 agosto 2007
Molto spesso gli oggetti raccontano la vita delle persone. A volte rare tracce testimoniano un passaggio, una presenza importante. Per questo gli oggetti si conservano in luoghi speciali. L’oggetto in questione è il relitto del DC-9 Itavia che la sera del 27 giugno 1980 si inabissò nelle acque al largo dell’isola di Ustica. Il luogo che lo custodisce, senz’altro speciale, è il Museo per la Memoria della strage di Ustica. A Bologna, città dalla quale l’aereo partì con destinazione Palermo quella sera di ventisette anni fa. Un tempio della memoria civile, il primo in Italia costruito appositamente, «che vuole creare consapevolezza, ricordare, emozionare e continuare l’impegno per la verità» come afferma la senatrice Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione vittime. Quasi una chiesa, un luogo di culto, un posto in cui si entra in silenzio e si rimane impassibili a fissare la carcassa di un relitto ricostruito pezzo per pezzo. Più di duemila frammenti di alluminio, scoloriti, corrosi dalla salsedine, che ricompongono come un puzzle ciò che resta dell’aereo. Molti hanno ancora l’etichetta di catalogazione.
IL MUSEO Il museo si trova in un enorme capannone quadrato di 30 metri di lato, poco distante dalla stazione centrale di Bologna. Realizzato nell’area di un ex deposito dell’azienda trasporti pubblici di Bologna, è stato progettato come un museo permanente. Al suo interno una gigantesca vasca scavata nel terreno, profonda un metro, permette di vedere a pieno la devastazione dell’aereo. La parte anteriore ormai inesistente, polverizzata nell’impatto con l’acqua, la coda che poggia su un’impalcatura metallica. Le ali sono le parti che sembrano avere subito meno danni nello schianto. Ai lati, un camminamento percorre le mura intorno al fossato, sulle quali sono appesi 81 piccoli altoparlanti, ognuno dei quali coperti da un piccolo vetro nero. Ottantuno come le vittime della tragedia, di cui tredici bambini. Ottantuno persone che quella sera ripetevano un gesto quotidiano. Prendere un aereo per le vacanze, per lavoro, per andare a salutare dei parenti. E gli ottantuno altoparlanti ripetono in continuazione frasi prese dalla quotidianità di chiunque. «Come faccio a dire ad Anna che non l’amo più?». «Da grande farò il pilota di aerei». «Appena arrivo a Palermo mi voglio fare il bagno». «Che tristezza oggi, speriamo che domani vada meglio». Un flusso costante di pensieri e voci sussurrate riempiono lentamente la sala, trasportando la mente di ogni visitatore, anche di chi quel giorno non era nato, alla sera del 27 giugno 1980. E a chiedersi come sia stato possibile, perché non si siano ancora scoperte le cause, e soprattutto a chi si debba attribuire la colpa di tutto questo. Gesta quotidiane, oggetti quotidiani. Come le scarpe, le agendine, i costumi da mare, le macchine fotografiche, gli spazzolini e gli altri bagagli delle vittime. Tutti recuperati e rinchiusi in dieci scatole di pelle nera posizionate ai piedi del relitto. Dal tetto, delle piccole lampade scendono ad altezza casuale, illuminando a diverse intensità l’area del museo. Ottantuno, anche queste.
LA MEMORIA Un museo dalla forte carica simbolica, progettato come un’opera d’arte dall’artista francese Christian Boltanski, massimo esponente della narrative-art. «È un’opera costruita per le persone – ha affermato il giorno dell’inaugurazione – un’opera che respira e che vive, come la memoria delle vittime». In una sala più piccola, otto computer permettono la consultazione del più grande archivio multimediale sulla strage. Dall’edizione straordinaria del primo Tg1 andato in onda la sera della sciagura fino alle ultime inchieste de “La storia siamo noi”. Centinaia di ore di filmati con interviste, analisi politiche e militari, pareri tecnici e comuni. Un museo fortemente voluto dall’associazione, che già nel 1992 aveva espresso la volontà di donare i resti dell’aereo alla città di Bologna.
IL RELITTO In quello stesso anno, dopo dodici anni di permanenza nelle acque del Tirreno, il relitto veniva ripescato in quasi tutte le sue parti, concludendo le operazioni di recupero iniziate nel 1987. Da allora i resti del DC-9 erano stati trasportati nell’aeroporto militare di Pratica di Mare, vicino a Ostia. Quattordici anni in cui il relitto è stato studiato e analizzato in ogni dettaglio da periti di accusa e difesa, ognuno dei quali ha tratto le sue conclusioni, nessuna delle quali è servita ad accertare la verità. Nel giugno del 2006 i resti dell’aereo sono stati smontati e trasportati lungo l’Autostrada del Sole da una colonna di tir dei Vigili del Fuoco. Nella caserma di Bologna il relitto è stato ricostruito per l’ultima volta e, infine, prima di terminare i lavori per la costruzione del museo, calato all’interno dello stesso. Nel ventisettesimo anniversario della tragedia, nel giugno scorso, alla presenza del sindaco Sergio Cofferati, del ministro Giovanna Melandri e della presidentessa dell’Associazione delle vittime di Ustica Daria Bonfietti, il taglio del nastro. Un’opera im-mensa, costata oltre due milioni di euro per il solo allestimento, finanziati in parte dal Comune di Bologna e regione Emilia Romagna, ma quasi interamente dal governo italiano.
I MISTERI D’ITALIA L’inaugurazione del museo è stata accompagnata da una serie di iniziative che hanno trasformato per una settimana Bologna nella città capitale della memoria. Concerti, opere teatrali, convegni e mostre storiche. Iniziative lodevoli e coinvolgenti, ma che rischiano di stigmatizzare la strage come una delle tante pagine oscure della Repubblica, su cui niente e nessuno potrà avere mai la sicurezza di scoprire la verità. Servizi deviati o missile americano, bomba a bordo o intercettamento da parte di un Mig libico, strage di stato o semplice cedimento strutturale. Ottantuno morti, ventisette anni di inchieste e nessuna verità, o forse troppe. L’unica certezza stabilita dalla giustizia italiana, nella sentenza del giudice Rosario Priore, è che un aereo civile italiano è stato abbattuto sul territorio nazionale nel corso di un’azione militare di intercettamento. Tutto il resto è ancora avvolto dal mistero.
A sintetizzare questo incredibile percorso della giustizia ci riesce, in maniera sarcastica ma tristemente reale, una delle tante vignette pubblicate in questi anni sulla strage. Un uomo si rivolge a un ufficiale dello stato chiedendo «Vogliamo la verità». «Ma se ve ne abbiamo già date venti!».