“Sì, viaggiare. E se possibile anche discriminare”. Trenitalia riesuma l’apartheid all’italiana

santi-poeti-navigatoriL’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, gli italiani in missione in Libano sono da sempre considerati amici degli autoctoni, siamo un Paese di santi poeti e navigatori. Di cazzate se ne dicono tante, quando si parla del nostro amato Paese. Ma quando si dice che siamo un popolo di viaggiatori, un fondo di verità c’è. Applausi all’atterraggio a parte e caffettiere attaccate agli zainoni scout, l’attitudine italica al muoversi costantemente è davvero lodevole. E i regolari e articolati servizi di StudioAperto sugli italiani in vacanza testimoniano questa tesi. Peccato però che quando uno straniero arriva da noi, si ritrova di fronte all’imbarazzante gestione monopolizzata dei mezzi di trasporto “pubblici”, da secoli accorpata nelle mani di poche aziende. Fiore all’occhiello del trip totalitarism è senza dubbio la gestione delle ferrovie pubbliche. Fino a qualche anno fa in mano alla corporation Ferrovie dello Stato, poi per decenza rinominata Trenitalia, la gestione dei treni nel nostro Paese è quanto di più discusso negli scomparti dei treni espresso taranto-ancona (cit.) e nei corridoi lerci degli intercity salerno-milano. “Si ringraziano i signori viaggiatori per aver scelto Trenitalia”. E sti cazzi, ad avere un’altra opzione col cazzo che prendevo i vostri immondi treni. Ci sta provando Montezemolo, a cambiare questa ottocentesca situazione da manuale di anti-trust, ma i treni che metterà in circolazione tra meno di un mese, gli attesi Italo, saranno quanto di più lontano dalla logica concorrenziale. Anzi. Treni superlusso con pinguini che servono champagne, e salottini in pelle umana che di certo non ingolosiranno i pendolari a cambiare il proprio abbonamento (ah, per la cronaca, pare che le stazioni dei treni gestite da Trenitalia, ovvero tutte, non metteranno nei cartelloni delle partenze i treni Italo. Giusto per stimolare un po’ ‘sta cazzo de concorrenza di cui tutti parlano).

4-classi-trenitaliaAnyway. Per cambiare l’immagine di vampire corporation attenta unicamente al risucchio dei salari altrui, Trenitalia ha deciso di cambiarsi d’abito. Via gli intercity e strade spianate ai soli frecciarossa, eliminati buona parte dei treni pendolari e dei treni notte. E via soprattutto ad una campagna di marketing che ha del geniale. Molti dicono che la crisi ha ampliato la forbice tra ricchi e poveri? Bene, creiamo 4 classi di viaggio, in cui i super ricchi potranno ampliare anche lo spazio fisico che li separa dai poveracci, e se non basta ci mettiamo pure porte anti-incendio che impediranno ai prolet di infastidire chi si gode i meritati miliardi evasi dal fisco con sapienza. E che cazzo. Qualunquismo socialista dite voi? Forse, o forse una dichiarazione nemmeno troppo velata a chi si permette di non avere un mezzo proprio per viaggiare. Prendete il pullman. Le 4 classi di viaggio (sì, sono classi, chiamare torte le merde di vacca non cambia il loro essere comunque delle merde) si divideranno in Executive, Business, Premium e Standard. Bella lì, verrebbe da dire. Prezzi ridotti e maggiore scelta dei comfort. Eh no, cari i miei poveracci. Perchè la standard rimane l’attuale seconda classe, solo che la dignità di chi la sceglie sarà minata da subito, con l’annuncio di una voce da gattina che annuncerà che le porte del vagone saranno chiuse per impedire di raggiungere gli scompartimenti delle elite, e i bagni fruibili saranno ugualmente divisi per strato sociale. Voci di corridoi parlano di carta moschicida per spazzarsi il culo e fondi di birra sgasata per sciacquarsi la faccia. Via pure il vagone ristorante pubblico. Non vorrete  mica venire qui a ordinarvi le vostre laide peroni mentre noi sorseggiamo del Pastisse, vero brutte zecche?? Una situazione da Titanic, in definitiva, che è stata resa ancor più grottesca dallo spot diramato dalla corporation. Grandi manager che discutono dei futuri delle aziende nelle prime classi, e una famiglia di immigrati potenzialmente puzzolenti nella classe standard.

Inoltriamo un video spettacolare di Natalino Balasso (sì, quello che se lo pigliava sempre in culo a Zelig, e forse la scelta del testimonial non è casuale) in cui la divisione viene presentata come una ben più pragmatica separazione tra Poveracci, Poveracci che fan finta di non esserlo, Gente che vorrebbe essere ricca e Gente ricca davvero.

4 amici al bar con goldrakeNon vogliamo alimentare altre polemiche dopo tutte quelle già lette in questi giorni e su cui si è già ricamato tanto. Però vaffanculo. A Roma la prossima volta ci scendo in Vespa e il mio vagone bar sarà il baretto sulla statale in cui magari incontrerò pure prolet e business man, uniti intorno al tavolino a parlar del derby Roma-Lazio.

In fondo, questo rimane sempre il Paese del calcio e dei 50 milioni di CT

Lasciamo alle Rosa Parks d’oltreoceano le lotte contro il sistema. Io devo ancora mandare la formazione del fantacalcio al sito della gazzetta

Guess who’s (NOT) coming to dinner. L’harakiri del rock’n roll abbronzato

Se quella maledetta monetina non avesse mandato Ritchie Valens sull’aereo con Buddy Holly e Big Bopper, ma il meno promettente Tommy Allsup, forse oggi staremmo raccontando un’altra storia. Certo, definire quella notte The Day the Music Died è forse un azzardo, ma la maglietta “grunge is dead” indossata con disinvoltura da Kurt Cobain dimostra come la morte nella musica sia il migliore spot possibile. Certo, tra il ’50 e il ’60, contemporaneamente al tragico incidente aereo, il rock’n roll aveva subito colpi da knock out davvero niente male: mentre Elvis arruolava il suo ciuffo impomatato, Little Richards si ritirava per andare a predicare dogmi religiosi, e Jerry Lee Lewis e Chuck Berry difendevano i loro culi libidinosi in tribunale. Lo scandalo payola, infine, piazzava sapientemente una bella pallottola nel cranio della musica che tanto piaceva ai giovanotti stanchi del perbenismo alla Eddie Fisher.

In quegli anni, negli Stati Uniti del maccartismo più paranoico e della ghettizzazione razziale, la musica era un bene di consumo soprattutto per i bianchi. Motivo per il quale molti visi pallidi scimmiottavano il jazz, il boogie woogie e lo swing. Era certo più facile vendere i dischi di un ragazzino ariano con rassicuranti occhialini, piuttosto che quelli di un Roy Brown o di un Big Joe Turner. Buona sorte ha voluto che la lezione sia stata appresa per bene dagli alunni in cadillac; tanto bene che dagli anni di Happy Days e American Graffiti in poi, la parola del rock’n roll in tutte le sue mille sfaccettature pare sia divenuta proprietà dei figli dei coloni. Piuttosto ironico, considerando che le sue più remote origini si fanno risalire ai canti degli schiavi neri nelle piantagioni di cotone.

Il rock’n roll, ad ogni modo, si è ripreso con vigore da quegli anni di sfighe a raffica, e negli ultimi 40 anni ha mutato forma come forse solo il T-1000 di Terminator 2.  E’ però purtroppo un dato di fatto che nel panorama internazionale (non parliamo chiaramente di quello nostrano) i musicisti neri abbiano abbandonato la loro forse più longeva creatura, per darsi ad altri generi comunque di prima fascia. (No, i Living Colour non valgono, Andre). Certo, ci sarà sempre un bassista bravo come Cass degli Skunk Anansie, un batterista che sa fare il suo mestiere come Gary Powell dei Libertines, o un eccentrico front man come Kyp Malone (non prendo neanche in considerazione il balordo dei Bloc Party), ma avete capito cosa intendo. Va bene, 2step e r&b portano un sacco di soldi, ma vuoi mettere la soddisfazione di sudare su di una pentatonica double-stops a ritmo hambone??

Dai ragazzi, tornate sul pezzo. Prometto che se lo farete bene tornerò ad acquistare legalmente musica.

Ah, se Bonz degli Stuck Mojo ci stai leggendo, per favore, smettila di cantare testi sudisti. O quantomeno leggili prima di sbraitarli. Sei nero. Non fai il tuo gioco.